La tradizione del maiale ha radici antiche in Abruzzo e diverse sono le testimonianze che lo confermano. Questo rituale affonda le proprie radici tra fine ‘800 e inizio ‘900, è una delle tradizioni popolari più radicate della nostra terra un momento di “festa” e un’occasione di socializzazione per l’intera famiglia.

Nella cultura e nell’economia contadina il maiale è da sempre simbolo di abbondanza, per la tradizione contadina abruzzese il maiale era quasi una divinità e dalla buona riuscita delle sue carni dipendeva la sopravvivenza dell’intera comunità. Di solito il patriarca, o la persona più esperta si occupava di trafiggerlo e conciarne le carni, perché un lavoro fatto male avrebbe pregiudicato un anno di sacrifici per allevarlo. Diverse famiglie continuano ad allevarlo come un tempo, nutrito soprattutto con scarti aziendali e familiari, crusca e tritello, prevalentemente allo stato semibrado fino al raggiungimento del “peso forma” ideale, tra 180 e 200 kg. Attraverso le sue carni saporite, declinate in gustosi e tipici salumi, il maiale garantisce un’importante riserva di carne tutto l’anno: salami, salsicce, prosciutto, pancetta, e così via.
Un tempo la tradizione voleva che i maialetti, di due-tre mesi, venissero acquistati nelle fiere di paese o da allevamenti della zona nei primi giorni del mese di giugno o comunque in prossimità del giorno di Sant’Antonio da Padova. La scelta del periodo dell’ingrasso era legata alla maggiore disponibilità nella fattoria di prodotti per l’alimentazione degli animali, soprattutto cereali, mais e altre granaglie, pastoni di fave e favino, ghiande e mele nel periodo autunnale.
L’uccisione del maiale, ovvero la maialatura, avveniva con l’arrivo dei primi freddi invernali, che cadeva nel mese di dicembre – gennaio, in fase di luna calante (la’mmanganza), in un periodo compreso tra le festività natalizie e il 17 gennaio, giorno di S. Antonio Abate “protettore degli animali”. L’uccisione del maiale, il taglio delle carni e le successive preparazioni erano veri e propri rituali collettivi, momenti conviviali e di festa a cui partecipavano parenti e amici dando vita a una manifestazione corale fatta di canti e balli. La famiglia operosa, come una catena di montaggio iniziava le prime operazioni di macellazione della carne, tanti i piatti che si preparavano con le carni fresche e che erano consumati nei giorni immediatamente successivi al taglio. Tra tutti il cif e ciaf, pezzetti di carni di maiale fritte con aglio e peperone dolce essiccato: si asportava una parte di guanciale, lo si tagliava a pezzi non troppo piccoli e lo si cuoceva in una padella di ferro direttamente sul fuoco del camino.
La “scorta” per tutto l’anno era fatta di preparazioni come l’immancabile sanguinaccio dolce, una sorta di crema con zucchero, cioccolato e cannella, da usare come farcitura per i dolci, e poi innumerevoli insaccati come: le salsicce di carne e di fegato, il capocollo, il salsicciotto, il prosciutto, la pancetta e, ovviamente, la ventricina. Dal grasso fuso presente nei tessuti adiposi si otteneva lo strutto, utilizzato in cucina come sostituto dell’olio, nella preparazione delle carni, nel ragù o per friggere, ma soprattutto lo strutto era indispensabile per la lunga stagionatura della ventricina (il globo ne viene tuttora cosparso dopo l’asciugatura).
Insomma, nulla andava perso. Poi iniziava la festa, una delle poche consentite ai contadini del secolo scorso, più importante anche del Natale, in quanto quei giorni erano tra i pochi dell’anno in cui i contadini si concedevano abbuffate di carne.
Per dovere di cronaca oggi il maiale si uccide nel mattatoio, tuttavia c’è ancora qualcuno che continua la tradizione dell’uccisione casalinga che ormai è regolamentata per legge.